giovedì 4 ottobre 2012

Apologia della filastrocca

Le filastrocche sono cose per bambini. 
Le filastrocche non sono cose serie. 
Le filastrocche sono, quando va bene, innocue idiozie.
Il fatto che il pensiero adulto tenda a considerare "infantile" questo genere bislacco, ha avuto un doppio effetto - positivo e negativo - sul suo destino. Da una parte la veste di "divertimento per bimbi" ha impedito alla filastrocca di entrare nel gran salone da ballo dove ha luogo la solenne cerimonia della critica letteraria - negandole così, tranne in sporadici casi, l'attenzione e l'analisi meticolosa che si meriterebbe -, d'altro canto è proprio in virtù di questa sorte che la nostra Cenerentola ha potuto mantenere il suo ruolo border-line e agire nella nostra cultura, per così dire, indisturbatamente e in incognito.

La parola adulta è alito modulato, suono e aria, flatus vocis racchiuso in un palloncino di gomma che tenderebbe a galleggiare in aria. Ma essa non sale libera, ancorata com'è al suolo dal peso delle cose a cui è legata. La referenzialità e la tendenza a sostanzializzare, tipica del linguaggio pragmatico in cui siamo - fortunatamente - immersi quotidianamente, inibisce il gioco spontaneo di suoni e immagini evocate dalla danza delle parole galleggianti nell'etere. In questo tipo di costruzione poetica, invece, suono e immagine sono saldate in una relazione così stretta da non lasciare neanche una fessura dove infilare il gettone del senso: una slot-machine gratuita in cui ogni tiro crea una combinazione vincente - o, mal che vada, nulla. 
La filastrocca è precisamente il tentativo - adulto e consapevole, o del tutto imprevisto - di recuperare un uso non-funzionale della parola, in cui il significato è eliso, letteralmente escluso dal gioco. 
Qualcuno potrebbe dire - non del tutto a torto - che anche un uso della parola di questo tipo è funzionale - altrimenti non sarebbe un uso -, e precisamente il suo scopo è il divertimento.
Ora, lungi da me negare che si possa trarre divertimento dal recitare, scrivere o semplicemente ascoltare filastrocche; ciò che contesto non è il fatto che il divertimento sia un elemento molto importante - e assolutamente sufficiente - nell'esperienza di fruizione o produzione della filastrocca: si può benissimo "filastroccare" per il semplice piacere di farlo. Ciò che non condivido è l'idea che essa sia solo, e necessariamente, un divertissement.


Voglio proporvi un paragone a prima vista bizzarro per tentare di chiarire ciò che intendo dire.

Immaginatevi di essere invitati da alcuni amici a fare una partita a poker.
Il poker, come ogni gioco di carte, è perlopiù considerato uno svago, un modo per passare il tempo libero in modo ludico con altre persone; divertendosi, appunto.
Tuttavia - specie se ci sono dei soldi veri nel piatto - difficilmente troverete facce distese e rilassate attorno al tavolo verde - a meno che non si tratti di veri professionisti, ma anche in tal caso, c'è da scommetterci, sebbene all'apparenza siano pienamente a loro agio, è ben difficile che si stiano realmente divertendo.
Dubbio, delusione, ansia, tensione - quando non vera e propria ira - sono il corredo emotivo standard di tali sedute. E, certo, a volte c'è spazio anche per una bella dose di soddisfazione, gioia e - in definitiva - autentico divertimento - specie quando si imbrocca la serata fortunata. Ma cosa c'entra ciò con il nostro discorso? 
Ebbene, se il poker - e avrei potuto fare molti altri esempi - è un modo di giocare con le carte, la filastrocca è un modo di giocare (con) le parole. E "giocare" non è sinonimo di "divertirsi". Il gioco può essere una cosa molto seria, destabilizzante, rischiosa o addirittura pericolosa. Quando ci allontaniamo dal sentiero battuto del senso comune e condiviso, non sappiamo in cosa potremmo incappare...

Ecco che dinanzi ai nostri occhi si distende uno spazio potenziale, infinito e ottativo, che brulica di immagini buffe, ritmi gioiosi, magnifiche alternative alla realtà "indicativa", ma anche di suoni indecifrabili, inquietanti, dissonanze folli, cul-de-sac e incubi grotteschi. 
Là, nel buio oltre le coperte, sopra al comodino, tre paia di rapaci occhi traslucidi, ci fissano senza essere visti.



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