martedì 16 ottobre 2012

Il Mostro dell'Acqua - pt.1


Il mondo era una testuggine piatta e io non avevo i nomi per dirlo.
Luglio, bambino, si grattava la testa nell'ombelico di sabbia della Liguria.
“Arma di Taggia” ha un suono marziale ed esotico, quasi coloniale. Me lo giravo in bocca sin da due mesi prima della partenza, fino a sentire sulla lingua il sale, l'amarena, lo sciogliersi appiccicoso dei ghiaccioli blu lungo l'avambraccio abbronzato.
Non so dirvi con precisione quanti anni avessi. Probabilmente mi stavano tutti in una mano. Quella che non era occupata a lanciare le biglie.
Ma ricordo con precisione quell'anno, quelle precise vacanze estive, perché fu allora che conobbi il Mostro dell'Acqua.

Il Mostro dell'Acqua è sicuramente amico o parente del Topo delle Tubature. Meno certi sono i suoi legami con il Dottore-pazzo-che-vive-sotto-al-letto-e-cerca-di-pungerti-con-la-siringa, sebbene i due si servano di metodi d'azione molto simili. Entrambi, infatti, appartengono alla folta schiera dei Mostri della Coda dell'Occhio. Tutti i bambini sanno che, assiepati ai bordi del campo visivo, si celano entità oscure e affamate di carne giovane, pronte a divorare tutti gli sprovveduti che hanno l'incoscienza di girare per il mondo senza portarsi dietro una Spada-dalla-lama-azzurra. O almeno un Pugnale-di-luce. Durante l'infanzia si impara a riconoscere tali presenze, a collocarle nei diversi ambienti e a gestire i rapporti con esse attraverso complicati rituali ben codificati. Il più importante e ancestrale di questi riti è indubbiamente la Nominazione. Con la Nominazione si riconosce l'Altro mostruoso e gli si dona una scintilla di esistenza. I mostri sono ghiotti di esistenza: è l'unica cosa che può dissuaderli dal farsi una bella scorpacciata di carne di bambino. Sussurrando tra le labbra mocciose il nome segreto dell'entità orrorifica, il ragazzino concede - sì, è vero - immediatamente una piccola parte della sua esistenza a quella stessa entità, ma contemporaneamente la strappa dal regno della Paura-Senza-Nome, la costringe in una forma, le affibbia un'identità. Il mostro è così diventato un Altro con cui trattare. Un Altro orrendo, disgustoso, temibile - senza dubbio - , ma che non ha più la paralizzante onnipotenza del terrore panico.
Naturalmente, io tutto questo non lo sapevo. Lo facevo.

Quell'anno venne a stare per qualche settimana nel nostro appartamentino marittimo il figlio della Paola. La Paola era - ma, a onor del vero, è ancora - la migliore amica della Mamma.
Davide - questo era il suo nome - aveva un paio d'anni più di me, i capelli biondi come un pagliaio, gli occhi azzurri come le mentine da infilare sotto la lingua, la sfrontatezza dei belli.
Insomma, era stato progettato per essere il mio opposto.
Io lo idolatravo.
Lo seguivo come un cieco segue il suo pastore tedesco, lo tempestavo di domande, gli guardavo le spalle se si giocava alla guerra e lui si lanciava all'attacco con l'incoscienza degli arditi. Forse mi ha spiegato lui come si fanno i bambini, ma non ne sono sicuro. E comunque non avevo capito bene.

Ma torniamo al Mostro dell'Acqua.
Un giorno, mentre facevo il bagno, decisi di nuotare in linea retta con la testa sott'acqua fino a quanto potevo. All'epoca portavo i braccioli - per capirci - : non potevo molto. Avrò fatto si-no due metri.
Quando riemersi, sentii il capo girare come una giostra di quelle pericolose, un vago accenno di nausea alla bocca dello stomaco, il gusto caustico della salsedine sul palato. L'aria ronzava come un elettrodomestico. I cirri pulsavano nell'amalgama grigio-blu del cielo sopra di me, i denti friggevano in gola.
Stavo per abbandonarmi all'acqua nella classica posizione supina a stella quando Lui apparve.
Era limaccioso e azzurro, freddo, piramidale. Gli occhi un fuoco di ghiaccio, la bocca una gelatina schiumante di denti da cui spuntava una mascella da piranha. Avanzava verso di me, dietro di me, più veloce di me. Dalla grotta della sua gola si diffondeva un ruggito basso e profondo, un mulinello di “A” simile al rumore dello scarico di una vasca scrostata e muffita.
Ero spacciato.
Con uno spasimo gettai i piedi sul fondo sabbioso. Toccavo. Con la punta delle dita, ma toccavo. Arrancando - l'acqua al mento - cominciai disperatamente a mulinare braccia e gambe il più in fretta possibile, dirigendomi verso quella che speravo fosse la riva. Il riverbero m'accecava. Qualcosa di viscido e molliccio che poteva essere un tentacolo mi abbrancò per una caviglia. Come elettrizzato, mi divincolai con un colpo di reni ed urlai il nome di mia madre. Bevvi un sorso d'acqua amara. Credetti di morire.
Giunsi a riva tra singhiozzi, pianti e urla; un filamento vischioso e verdastro collegava la mia narice destra al mento. Buttai le braccia attorno ai fianchi di Mamma e nascosi la facci nella sua pancia.
Lei stava parlando con un'amica, non s'era accorta di nulla. Mi avvolse nell'accappatoio marrone e troncò il suo dialogo. Intanto, dal mare, simili agli stridii dei gabbiani, le risate di una manciata di ragazzini faceva da coro sardonico alla mia uscita tragica. Tra di loro, Davide.
La voce di mia madre che ripeteva “Cos'è successo? Vuoi dirmi cosa capita?” filtrava appena attraverso la bolla di vergogna che m'ottundeva i sensi e mi gonfiava le lacrime negli occhi.




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