lunedì 17 dicembre 2012

Sulla fiducia


C'è un solo punto, nella Dottrina del Diritto, in cui Kant è costretto a postulare l'esistenza di Dio - o almeno l'ipotesi che tutti i cittadini condividano la fede in tale entità - affinché il suo sistema di diritto, altrimenti estremamente laico e fondato sulla sola ragione, possa stare in piedi: si tratta del passaggio in cui affronta la questione del giuramento di fronte alla corte.
L'estremo garante delle asserzioni di un individuo deve essere un ente capace di onniscienza, altrimenti la verità celata nell'intimo della coscienza del soggetto potrebbe sempre sfuggire a una verifica definitiva. Con questa mossa, Kant, non fa che spostare sul piano metafisico un problema pragmatico. È infatti la fiducia, e non la fede, la garante ultima delle asserzioni di un individuo.

Questo diventa evidente nel momento in cui si considera il fatto che la professione di fede stessa non può essere garanzia di fede, se non per il più ingenuo dei giudici. Tuttavia, una garanzia è necessaria per porre termine alla spirale potenzialmente infinita del sospetto di malafede; altrimenti ad ogni meta-asserzione volta ad asserire la veridicità di una proposizione, potrà sempre seguire una meta-accusa che ne metta in discussione la credibilità e la buonafede.
È evidente che su queste basi nessuna comunità di individui può essere costruita.
Ma mentre la dichiarazione di fede - nell'ottica del giudice ingenuo che crede che il semplice riferimento ad un'entità onnisciente garante della veridicità dell'affermazione sia una garanzia indistruttibile della veridicità dell'affermazione stessa - chiama a testimone un'entità trascendente, la richiesta di fiducia chiama in causa la disponibilità a credere della giuria. Questo, ovviamente, non la rende immune da una meta-accusa di malafede.
Dunque cosa può interrompere la spirale del sospetto in un'ottica laica che rifiuta di assumere a fondamento del suo diritto e delle relazioni umane una fede generale e condivisa in un'entità trascendente e onnisciente?
In ultima istanza, la richiesta di fiducia chiama in causa la scelta dell'individuo che, per quanto possa appellarsi ad un calcolo razionale del rischio, non può prescindere completamente dall'accettazione di una componente aleatoria. Al soggetto particolare e non onnisciente cui è rivolta la domanda di fiducia si richiede un gesto rischioso, un salto cieco che - pur tenendo conto di tutte le possibili cautele - implica la messa tra parentesi della possibilità sempre presente della menzogna. La fiducia è l'oblio della menzogna. Essa apre un campo dove l'altro può mentire senza che la sua menzogna sia individuata da occhi che non siano i suoi.
In altre parole: ogni affermazione S - nella sua pretesa di essere vera - può essere messa fra parentesi e assumere la forma: “è vero che ( S )”. Ma questa meta-affermazione può a sua volta essere messa fra parentesi - cioè: “è vero che [ è vero che ( S ) ]” - , e così via ad libitum.

L'unico modo per uscire da questo empasse - ove non sia possibile una verifica dei fatti, e questo sembra essere il caso maggioritario nel momento in cui si tratta di relazioni umane - è l'escamotage di girare le parentesi in modo che includano la possibilità della menzogna e forcludano l'asserzione originale: “non è vero che ) S ( “.
Questa soluzione - che da un punto di vista strettamente logico e formale non aggiunge né toglie niente al problema - , ovviamente, non permette una garanzia assoluta, pur manifestandone in qualche modo l'esigenza.
La possibilità del tradimento è sempre presente, eppure, affinché la fiducia svolga la sua funzione permettendo il normale svolgimento dei commerci umani, deve essere in qualche modo - e in diversa misura a seconda dei casi e della propensione individuale al calcolo del rischio - accantonata, obliata, messa fra parentesi. Il tradimento è relegato sullo sfondo gestaltico da cui emerge la definizione accettata della realtà che lega inter-soggettivamente gli individui coinvolti nella relazione. Uno sfondo sfumato, che l'attenzione condivisa non percepisce distintamente. Solo così un'affermazione inverificabile che deve essere accettata come vera può svincolarsi dalla spirale del sospetto.
Tradire significa dire tra parentesi, lasciando deliberatamente che la menzogna cada nel campo impermeabile all'altro che la fiducia accordataci ha aperto.
Questo scarto, questo campo di solitudine che ogni rapporto deve prevedere, è il luogo dove il volto umano si prepara a sostenere l'affermazione, il retroscena dell'azione dove l'attore respira, tolta la maschera.


2 commenti:

  1. il problema potrebbe essere torto verso l'individuo stesso? ovvero, posso effettivamente fidarmi di ciò che sto dicendo, o meglio, non esiste uno scarto tra ciò-che-vorrei-dire e ciò-che-effettivamente-dico?
    come dire, ogni volta che diciamo qualcosa dobbiamo in definitiva accordare fiducia nei confronti della nostra enunciazione, accordandole il beneficio del dubbio riguardo il fatto che questa riesca effettivamente a restituire ciò che era nel pensiero (il che non accade mai però senza residui).
    In qualche modo, quello sfondo aleatorio menzognero, prima ancora di essere presente tra due individui, non è forse già in azione nel discorso che l'individuo intesse con se stesso?

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  2. Forse la dimensione del dire è già eminentemente sociale e intersoggettiva. Con uno sforzo un po' metaforico, persino il soliloquio necessita di due parti in gioco: un Io-che-parla e un Io-che-ascolta. E quindi di un'autorità che giudica (kantianamente, nel senso che esercita la sua facoltà di giudizio: il pensiero) e di un imputato che è giudicato e a cui è lasciato uno spazio d'indulgenza necessario. Ma devo ammettere che nella roba che ho scritto sopra, il problema del soggetto è messo un po' tra parentesi...

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dilla