C'è un solo punto, nella Dottrina del
Diritto, in cui Kant è costretto a postulare l'esistenza di Dio - o
almeno l'ipotesi che tutti i cittadini condividano la fede in tale
entità - affinché il suo sistema di diritto, altrimenti
estremamente laico e fondato sulla sola ragione, possa stare in
piedi: si tratta del passaggio in cui affronta la questione del
giuramento di fronte alla corte.
L'estremo garante delle
asserzioni di un individuo deve essere un ente capace di onniscienza,
altrimenti la verità celata nell'intimo della coscienza del soggetto
potrebbe sempre sfuggire a una verifica definitiva. Con questa mossa,
Kant, non fa che spostare sul piano metafisico un problema
pragmatico. È
infatti la fiducia, e non la fede, la garante ultima delle asserzioni
di un individuo.
Questo
diventa evidente nel momento in cui si considera il fatto che la
professione di fede stessa non può essere garanzia di fede, se non
per il più ingenuo dei giudici. Tuttavia, una garanzia è necessaria
per porre termine alla spirale potenzialmente infinita del sospetto
di malafede; altrimenti ad ogni meta-asserzione volta ad asserire la
veridicità di una proposizione, potrà sempre seguire una
meta-accusa che ne metta in discussione la credibilità e la
buonafede.
È
evidente che su queste basi nessuna comunità di individui può
essere costruita.
Ma
mentre la dichiarazione di fede - nell'ottica del giudice ingenuo che
crede che il semplice riferimento ad un'entità onnisciente garante
della veridicità dell'affermazione sia una garanzia indistruttibile
della veridicità dell'affermazione stessa - chiama a testimone
un'entità trascendente, la richiesta di fiducia chiama in causa la
disponibilità a credere della giuria. Questo, ovviamente, non la
rende immune da una meta-accusa di malafede.
Dunque
cosa può interrompere la spirale del sospetto in un'ottica laica che
rifiuta di assumere a fondamento del suo diritto e delle relazioni
umane una fede generale e condivisa in un'entità trascendente e
onnisciente?
In
ultima istanza, la richiesta di fiducia chiama in causa la scelta
dell'individuo che, per quanto possa appellarsi ad un calcolo
razionale del rischio, non può prescindere completamente
dall'accettazione di una componente aleatoria. Al soggetto
particolare e non onnisciente cui è rivolta la domanda di fiducia si
richiede un gesto rischioso, un salto cieco che - pur tenendo conto
di tutte le possibili cautele - implica la messa tra parentesi della
possibilità sempre presente della menzogna. La fiducia è l'oblio
della menzogna. Essa apre un campo dove l'altro può mentire senza
che la sua menzogna sia individuata da occhi che non siano i suoi.
In
altre parole: ogni affermazione S
- nella sua pretesa di essere vera - può essere messa fra parentesi
e assumere la forma: “è vero che ( S
)”.
Ma questa meta-affermazione può a sua volta essere messa fra
parentesi - cioè: “è vero che [ è vero che ( S
)
]” - , e così via ad
libitum.
L'unico
modo per uscire da questo empasse - ove non sia possibile una
verifica dei fatti, e questo sembra essere il caso maggioritario nel
momento in cui si tratta di relazioni umane - è l'escamotage di
girare le parentesi in modo che includano la possibilità della
menzogna e forcludano l'asserzione originale: “non è vero che ) S
(
“.
Questa
soluzione - che da un punto di vista strettamente logico e formale
non aggiunge né toglie niente al problema - , ovviamente, non
permette una garanzia assoluta, pur manifestandone in qualche modo
l'esigenza.
La
possibilità del tradimento è sempre presente, eppure, affinché la
fiducia svolga la sua funzione permettendo il normale svolgimento dei
commerci umani, deve essere in qualche modo - e in diversa misura a
seconda dei casi e della propensione individuale al calcolo del
rischio - accantonata, obliata, messa fra parentesi. Il tradimento è
relegato sullo sfondo gestaltico da cui emerge la definizione
accettata della realtà che lega inter-soggettivamente gli individui
coinvolti nella relazione. Uno sfondo sfumato, che l'attenzione
condivisa non percepisce distintamente. Solo così un'affermazione
inverificabile che deve essere accettata come vera può svincolarsi
dalla spirale del sospetto.
Tradire
significa dire tra parentesi, lasciando deliberatamente che la
menzogna cada nel campo impermeabile all'altro che la fiducia
accordataci ha aperto.
Questo
scarto, questo campo di solitudine che ogni rapporto deve prevedere,
è il luogo dove il volto umano si prepara a sostenere
l'affermazione, il retroscena dell'azione dove l'attore respira,
tolta la maschera.
il problema potrebbe essere torto verso l'individuo stesso? ovvero, posso effettivamente fidarmi di ciò che sto dicendo, o meglio, non esiste uno scarto tra ciò-che-vorrei-dire e ciò-che-effettivamente-dico?
RispondiEliminacome dire, ogni volta che diciamo qualcosa dobbiamo in definitiva accordare fiducia nei confronti della nostra enunciazione, accordandole il beneficio del dubbio riguardo il fatto che questa riesca effettivamente a restituire ciò che era nel pensiero (il che non accade mai però senza residui).
In qualche modo, quello sfondo aleatorio menzognero, prima ancora di essere presente tra due individui, non è forse già in azione nel discorso che l'individuo intesse con se stesso?
Forse la dimensione del dire è già eminentemente sociale e intersoggettiva. Con uno sforzo un po' metaforico, persino il soliloquio necessita di due parti in gioco: un Io-che-parla e un Io-che-ascolta. E quindi di un'autorità che giudica (kantianamente, nel senso che esercita la sua facoltà di giudizio: il pensiero) e di un imputato che è giudicato e a cui è lasciato uno spazio d'indulgenza necessario. Ma devo ammettere che nella roba che ho scritto sopra, il problema del soggetto è messo un po' tra parentesi...
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