lunedì 18 febbraio 2013

Il teatro e il suo cappio


Forse l'impresa del teatro sta nel tentativo di cogliere il gesto umano.

Cioè il gesto di quello strano primate che si auto-rappresenta come responsabile del suo agire. E colpevole. Insomma, qualcosa di diverso da una mela che cade. Perché se è vero che le mie azioni obbediscono alle leggi del moto e della gravitazione - proprio come la caduta della mela - , è ancora più vero che che su di esse s'installa un piano di significato irriducibile alla loro mera descrizione fisica. 
Non si può disegnare la parabola di un omicidio.

Forse questa impresa ha a che fare con domande quali: cosa significa che un atto modifica la realtà, in che relazione esso sta con l'intenzionalità di chi agisce, con la sua abilità strategica, col suo desiderio. E tali questioni danzano attorno al problema della prevedibilità, e cioè del rapporto tra ripetizione e variazione.

Dal nocciolo spaccato di questo tarlo insanabile, da questa natura organica schizofrenica germoglia il paradosso drammatico: il teatro è un gesto che tenta di afferrarsi.
Come un linguaggio che tenta di dirsi, non può che sfuggire, costantemente, alla sua dizione. Una vera male-dizione - un balbettare del fare - che consiste nell'essere contemporaneamente specchio - rappresentazione - e corpo - vita -. Una male-dizione che lo consuma: l'immobilità di Amleto è come l'afasia del parlante che non vuol essere parlato - che non può più esserlo! - dal suo linguaggio. Eppure l'azione trattenuta è sempre azione - il silenzio è veicolo di significato -. Anzi, è il fulcro fantasmatico, il perno d'assenza attorno cui ruota e da cui si origina - centrifugo - l'intero accadere drammatico.

Lo stesso essere posizionati, è un gesto. Un gesto inteso come relazione dinamica di un soggetto con l'ambiente.

Esistono dei gesti - e quelli che interessano il dramma sembrano essere tra essi - che "soffrono" di iperposizionalità o aposizionalità.
Atti compiuti da soggetti che non si riconoscono o non sono riconosciuti come tali: pensiamo, ad esempio, a chi agisce "fuori di sé", nell'incapacità di intendere o di volere, o perché mosso da una o più volontà che riconosce come estranee alla sua. Pensiamo agli eroi tragici, agli alienati, ai fanatici, agli assassini che compiono efferati delitti perché gliel'ha ordinato Mickey Mouse. Pensiamo agli atti di questi soggetti vuoti o affollati che forzano il perimetro della soggettività fino a renderla irriconoscibile agli occhi del buon senso, della società civile. Si tratta di gesti inadeguati rispetto alla scrittura sociale, che non seguono il canovaccio: fuoriescono dall'impalcatura di pattern sulla quale si ricostruisce ad ogni gesto con regolarità e prevedibilità la realtà comunemente accettata.

La variazione è consustanziale alla ripetizione, ed è cifra e stile - a sua volta, quindi, passibile di ripetizione e variazione - . 

Ma c'è una soglia di tolleranza - socialmente determinata - della variazione. La rottura della sottile pelle del contesto è un'azione tipica del narcisista/borderline che, faticando a riconoscere i confini del sè - e di conseguenza discostandosi dalla sua posizionalità - invalida l'auto-taratura del contesto, palesa uno squilibrio, un'asimmetria nella rappresentazione. Crea un breccia, una conca in cui l'alterità s'incista come un granello di sabbia in un'ostrica. L'estetizzazione del gesto non scrivibile - l'abbraccio scenico della madreperla - è il tentativo estremo di rendere innocuo - o meglio, doloroso, ma umano -  l'isotopo instabile che squassa l'ordine atomico della rappresentazione.
In un mondo senza rischio e senza violenza, o in un mondo in cui tutto è rischio e violenza, non ci sarebbe teatro.


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dilla