venerdì 29 marzo 2013

L'eterno singhiozzo

La morte già amara 
più amara è dei comici:
livida sbianca
la faccia
senza trucco,
spegne il rantolo 
in una pernacchia,
s'adagian le membra
con ultima capriola
sul fondo della fossa;
pietà d'ognun 
si spegne in gola.

Tu che curi
l'umana paura
facendo solletico
allo spirito,
ricorda questo
triste adagio:
risata più forte
non esiste
della morte.


domenica 24 marzo 2013

L'amore albino

Stamane avrei voluto
avesse bussato
alla tua porta
un enorme
rinoceronte
bianco
vestito solo
con una bombetta
inglese
e un fiocchetto
rosso
intorno al gigantesco collo.
Fosse stato per me,
avrei pagato
l'avaro pachiderma
con otto tonnellate
di foraggio pregiato
perché ti portasse
un mazzo di seicento
rose molto rosse,
come il suo fiocchetto,
e pronunciasse
con le sue labbra quadrate
poche semplici parole
d'amore molto rosse,
come le mie rose,
come il suo fiocchetto.

Ma i pachidermi albini
sono avari ed infidi,
meschini:
si sarebbe tenuto
i soldi delle rose
e li avrebbe spesi
in alcolici
e puttane
e pasticchette
per farsi rizzare il corno
- ma non è per colpa loro
se son fatti così:
è tutto un intreccio
di cause storiche
e socio-economiche.
E allora no,
e allora niente,
quelle piccole parole
arrossite d'amore
te le dico da me,
dalle mie labbra sbilenche,
masticate al di fuori 
di questa
stupida 
poesia.


giovedì 21 marzo 2013

Questa Primavera mi ha preso alla sprovvista


Questa Primavera mi ha perso alla sprovvista
come un lancio di Pirlo
che supera superbo la linea dei difensori
e s'insinua serpentino in area.
E però io - centravanti sbadigliante -
mi sono scordato il movimento di ritorno,
che ero già lanciato 
verso un inverno eterno
e volevo solamente
rubare i guanti
al portiere volante,
al portiere gigante,
al portiere elefante.
Mi cogli in fuorigioco
Primavera,
non ci siamo capiti:
dovevi darla in fascia 
al terzino
e andare a centro area,
io portavo fuori l'uomo
e così Di Livio
con una finta a rientrare
si fotteva il difensore,
la buttava in mezzo
e tu insaccavi,
smarcata,
libera
indisturbata.
Lampo di genio un cazzo,
Primavera:
non c'è nulla di innovativo
nell'anticipare le cose,
non c'è nulla di creativo
nel non annunciarle,
e adesso
mi hai preso alla sprovvista,
troppo vestito
col dolce vita grigio
e il pantalone marrone
di velluto costato,
sudato,
come un terrorista
al check-in
col gilet imbottito
di freddo esplosivo.

Sarai contenta.

mi sa
lo sei.
Tu te ne freghi
della mia posizione irregolare
del mio umore di tritolo
del mio guardaroba d'anziano,
tu esplodi
in una risata verde
e fai spallucce
e hai occhi di sole
e appari solo
se e quando ti pare
a dispetto delle marmotte
e dei metereopatici
e dei governi
di larghe intese:
me l'ha sussurrato
stamane
un sauro
accoccolato
s'un coccio
solitario
ubriaco di tepore.





mercoledì 13 marzo 2013

Ordine e Chaos

Pirandello è nato ad Agrigento. 
O Akragas. O Agrigentum. O Kerkent. O Girgenti, come la chiamavano i normanni e poi anche la maggior parte di quelli che ci abitavano. 
Almeno finché nel '29 Mussolini ha deciso che no, ha deciso che la si chiama tutti - normanni e non - come la chiamavano i romani. 
E allora Agrigento. Va bene. 
Pirandello è nato ad Agrigento.
"Difficile capire un Paese" disse Enzo Biagi "dove la stessa cosa è chiamata al Nord uccello e al Sud pesce". Difficile anche governarlo. A meno che non si voglia usare il manganello; che quello, per farsi capire, si fa capire in tutte le lingue. 
E Pirandello, in effetti, piegò la sua penna di fronte agli argomenti del bastone. Ebbe la sua tessera nel '24. 
Un accattone? Un anti-comunista? Un ignavo? Un patriota? 
Sì, sì, sì, sì.
E' vero che stracciò la sua tessera nel '27, davanti agli occhi allibiti del Segretario Nazionale?
E' vero che nel '35 rispose alla richiesta di "oro per la patria" indetta dal regime fascista donando il suo Premio Nobel?
E' vero che firmò il manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile?
E' vero che la critica fascista non fu mai morbida nei confronti delle sue opere e che finì nelle liste dell'OVRA, la polizia segreta del regime?
Sì, sì, sì e sì.
Così è, se vi pare.
Pirandello è nato ad Agrigento.
Un nome solo per tentare d'arginare il caos di centomila, per ancorare un'illusoria immagine mentale ad una cosa. Volontà e ordine fusi come in una formula magica; una nenia ripetitiva, ipnotica, pronunciata senza sosta per plasmare gli usi linguistici - e quindi il mondo - dell'ipotetica tribù italica.
La macchina della propaganda è la moderna serializzazione della facoltà mitopoietica antica. Pistoni e tapis-roulant contro mani sporche d'argilla e torchio.
Una bugia ripetuta dieci, cento, mille volte, diventa la verità.
Un popolo è popolo anche e soprattutto perché tutti i suoi membri chiamano la stessa cosa nella stessa maniera.
Ma Pirandello sa - e lo dice, parlando di humour inglese e lingua italiana- che "il fatto che non ci sia la parola, non significa che non ci sia la cosa". 
E, con un ribaltamento umoristico, il fatto che ci sia una parola non implica che essa significhi la stessa cosa per tutti.
Infatti Pirandello non è nato ad Agrigento. Questa è una bugia, raccontata mille volte.
Pirandello è nato a Girgenti "sotto un gran pino solitario in una campagna d’ulivi saraceni affacciata agli orli d’un altopiano d’argille azzurre sul mare africano". E quel luogo irto e selvaggio, fuori dal recinto umano della città, gli autoctoni lo chiamavano Cavusu. 
Cavusu. Cioè Caos. Cioè l'abisso, la voragine, il vuoto prima di ogni mito, prima di ogni racconto, prima di ogni parola. L'infondato da cui si ergono, e vengono sequenzialmente evirati, i ripetuti tentativi d'ordine, di forma, di senso, in cui la vita stessa cerca di sclerotizzarsi.
Ritmo, pulsazione, alternanza, oscillamento: gesti che disegnano lo spazio e il tempo in cui poter attuare gesti che disegnano lo spazio e il tempo in cui poter attuare gesti... 
Vita e teatro. Il fatto che sian due parole diverse, non significa che siano due cose diverse.
Pirandello è morto a Girgenti. 
Un carro misero e disadorno - secondo quanto scritto di suo pugno, per fissare le sue ultime vive volontà - l'ha ricondotto, biutto, nella bocca del fuoco.
Cremato. Un vaso a contenere il resto di cenere dello sparagmos, di modo che il suo corpo, consumato dalle parole, tornasse al Caos muto da cui era nato.



mercoledì 6 marzo 2013

Tic-tac


Location: Texas diciamo.
Strade polverose, cactus, coyote.
Cosa?
No, non ci sono mai stato in Texas.
Perché tu?… Va beh, non me ne frega un dattero, io sono il narratore e tu il lettore, non fare domande e sii ricettivo.
Strade polverose, cactus e coyote, dicevamo… a mio avviso rendono l’idea, fatteli andar bene.
Come?
Sì, tipo Zorro. Meno Messico e Nuvole però, più Sergio Leone.
Ecco, il vento canticchia un motivetto di Ennio Morricone, biascicando tabacco come un vecchio stropicciato.
L’aria è calda.
In che senso quanto? Ah, calda quanto chiedi? Non saprei, ma trenta-trentacinque gradi ci son tutti… di sicuro si pezza sotto alle ascelle.
La stagione? Addirittura la stagione vuoi sapere? Non la so la stagione, non rompere il cazzo e ascolta.
(Dimmi te, una volta i lettori stavano belli zitti, se si provavano a commentare a sproposito li si buttava sul primo rogo, arrivederci e tante grazie. Tempi duri adesso, per noi altri).
Comunque, fatto sta che siamo in Mess… in Texas -volevo dire- l’aria è calda e ci sono un sacco di cactus e coyote.
No, la strada polverosa è una sola: prima ho usato il plurale perché rendeva meglio.
Una sola, lunghissima via che l’orizzonte sega a metà, lasciando il dubbio del vuoto aldilà dello sguardo, che si dondola placido e indifferente nell’atmosfera rovente. Addossato alla strada, un villaggio.
A che altezza della via dici? A destra o a sinistra?… Ma che quesiti ti poni? Rilassati, vivitela più scialla ragazzo mio! Mica ti sto dando delle indicazioni stradali… Un po’ di complicità per piacere! Dov’è finita l’immaginazione, Dio Santo?
Vabbè scusa, dai, non andartene. Vieni qua che devo introdurre il personaggio principale.
Sei comodo? Bene.
Dunque, c’è un villaggio su sta strada coperta da un tappeto di cactus e coyote, e in questo villaggio sta succedendo qualcosa.
Qualcosa di molto pericoloso.
Tutta la gente è fuori in strada, l’aria preoccupata, la testa incassata tra le spalle.
Nulla si muove, nulla fiata.
- Tic-tac, tic-Tac.
Sul campanile bianco e svettante, un raggio del sole, quasi allo zenit, si posa cocente, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Come scusa? È un po’ contorto come periodo? Va bene, lo riscrivo.
Un raggio del sole, quasi allo zenit, si posa cocente sul campanile bianco e svettante, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Si, hai ragione, è più chiaro.
- Tic-tac, tic-Tac.
Il nostro protagonista è proprio lui: L’orologio.
Ebbene si, sarò scontato, sarò banale, sarò quel che vuoi… comunque ho ancora la facoltà di scegliere i personaggi dei miei racconti.
Come? Ah, beh, sì, non aspettarti grandi dialoghi: con un orologio e dei villani stupiti c’è poco da far dialogare.
- Tic-tac, tic-Tac.
Questo è il massimo di discorso diretto che posso regalarti, mettiti il cuore in pace.
- Tic-tac, tic-Tac.
Comunque, ci sono questi abitanti del villaggio, questa folla che s’ammassa ai lati della piazza principale -proprio quella del campanile, per intenderci- e ha un aria molto preoccupata. No, non s’ammazza, s’ammassa.
Però ci sono due che si vogliono ammazzare.
Sono i co-protagonisti, i personaggi più importanti dopo l’orologio.
- Tic-tac, tic-Tac.
Ma neanche loro parlano, stanne certo.
Stanno in mezzo alla piazza e si guardano da sotto i sombrero. Uno mastica un sigaro, l’altro si morde un labbro.
Le mani danzano una coreografia d’ansia e attesa sulla testa della fondina, le dita fremono.
- Tic-tac, tic-Tac.
A mezzogiorno.
A mezzogiorno in punto uno dei due sarà un co-protagonista morto.
Il racconto è troppo piccolo per tutti e due.
- Tic-tac, tic-Tac.
La folla suda, respira affannosa, stringe i cappelli tra le mani o attende di ammazzare un whiskey torbido, sulla soglia del saloon.
Il sindaco, a fianco del vecchio ranger incartapecorito, s’asciuga la fronte imperlata da cristalli d’ansia e timore.
Se ti va, giusto per aggiungere un po’ di pepe alla storia -e anche perché è un po’ che stai buono e non mi interrompi- possiamo fare che uno dei pistoleri è suo figlio. Questo lo lascio decidere a te.
- Tic-tac, tic-Tac.
La lancetta è inesorabile: a scatti tondi s’avvicina al punto più alto dell’orologio, proprio come il sole, che sale, lento, fin sulla punta del cielo.
- Tic-tac, tic-Tac.
Manca poco. Questione di secondi.
- Tic-tac, tic-Tac.
Tutti gli occhi sono puntati ai due contendenti che cominciano ad accusare la fatica: sentono i morsi della paura, una paura fredda che si condensa nel caldo dell’aria in pensieri di morte.
Non saprei dirti se è più una metafora o una sinestesia o chissà che... bravo, comunque, bella domanda.
- Tic-tac, tic-Tac.
Il momento è quasi giunto.
Manca un secondo: la lancetta delle ore, quella dei minuti e quella dei secondi sono sovrapposte, ferme una tacca prima del segno “XII”, aspettando di muoversi tutte assieme verso un rimbombo di campane e spari.
Come scusa? No, effettivamente non ho mai osservato un orologio analogico nel momento esatto prima che scattasse l’ora, e si, effettivamente dunque non so dirti con esattezza se è quella la posizione che assumono le lancette in tale precisa frazione di tempo, ma siccome siamo quasi al termine del racconto, ti prego di non assillarmi più con la tua pignoleria: vaffanculo! E fidati una buona volta, no?… E’ un artificio retorico, mica bisogna stare lì a fare i precisini!
E poi, comunque, nessuno dei presenti se n’è accorto: tutti guardano i due co-protagonisti, che si scrutano fra loro.
Le mani calano ad afferrare il calcio delle Colt.
Nello stesso istante una donna apre la bocca per urlare, un bambino si tappa le orecchie con le dita, un bicchiere -ignaro dellle leggi sulla gravitazione universale di Newton- è fermo a mezz’aria tra la mano d’un vecchio e il pavimento, il proprietario del saloon ha gli occhi sgranati, il ranger è colto da un attacco di narcolessia, il sindaco ha la faccia viola di chi sta per svenire, un coyote singhiozza, un cactus muore, il resto della folla ha il fiato sospeso.
Ed ecco che accade qualcosa di straordinario.
- …
L’orologio s’è fermato.
Si rifiuta di muoversi ancora di un piccolo passo.
Tutto rimane immobile, incollato a quel movimento che non è avvenuto, ad un istante che non è trascorso.
Impossibile, dirai.
Me ne frego. Questa storia la racconto io, e sono io a decidere che succede.
La prossima scrivila tu e falla finire come ti pare, se proprio vuoi, ma adesso sottostai al significato delle lettere che ho scritto.
Per quanto assurdo, surreale, insensato, tutto è fermo, cristallizzato nell’eternità sintetica della pagina.
Un universo imprigionato per sempre nella dimensione immaginaria che si è instaurata nello spazio di dialogo che abbiamo creato io e te, amato-odiato lettore.
Abbiamo bloccato il tempo.
Ma, purtroppo, anche io e te, volenti o nolenti, in quanto narratore e lettore esistiamo solo in questo cosmo d’inchiostro e cellulosa: la nostra vita è legata alla vita dei personaggi che lo abitano; al deserto, ai cactus, ai coyote, alla folla, ai pistoleri e, in definitiva a sua maestà l’orologio.
Se egli smette di battere, il vuoto cala e sgretola la struttura del racconto.
Rimane solo l’innominabile, a cui nulla può seguire, se non lo stesso nulla.
E un povero scrittore in altro modo non può esprimerlo se non con la solita vecchia parola di rito che lascia posto soltanto a un eterno silenzio:

FINE





lunedì 4 marzo 2013

Il Lupo di Cappuccetto Rosso non lo sa nessuno ma è omosessuale

E il Cacciator ficcando
due dita in gola al Lupo,
che aveva la bocca
spalancata da un cric,
digrignò tra i baffi
alcuni versi buffi
che suonarono così:
"Sputale, speciosa
palla spelacchiata!
Sputale o ti scuoio!
Vomitale o il rasoio!
Rigurgita la Nonnetta,
scacazza Cappuccetta!
Non sono schizzinoso:
scegli pure l'orifizio
che ti riesce facile,
ma escile, ti dico,
sennò ti malefizio!"
E il lupide nel mentre,
l'occhio a palla
il cuore a mille
la pancia capanna
la bocca di colla,
biascicava scivoloso
sciorinava strane scuse
spergiurava senza speme
e sudava fifa e sale
con le nari aperte e tese:
"La giara, cara cacciatara!
garda ca davvara
nan l'ha mangiata ia!
Hai prasa an abbaglia
ia mangia sala
biada a paglia!"
Ma l'Cacciator ch'avea
un diploma radioelettra
in ginecologia sperimentale
conseguito in tutta fretta
per far partorire il suo maiale,
decise ponderando,
e prendendo in considerazione
l'opinione del primario,
per un taglio cesareo.
Allora estrasse il coltellone
dal fodero di cuoio
scamoscio e marrone
e incurante dei
"NA TA PRAGA!
NA TA SAPPLACA!"
iniziò l'operazione
con tatto e dimestichezza
e un po' di liquirizia.

Il travaglio andò bene,
eran due femminucce:
una di 40 chili
e l'altra d'ottant'anni;
un po' sorda quest'ultima,
un po' bionda la prima.
Ma il Lupo fu contento 
contento lo stesso
e sposò il Cacciatore,
il quale, gran signore,
 riconobbe senz'altro
e con ammirevole spregiudicatezza
la paternità della vecchietta
e della Rossa Cappuccetta...
e vissero tutti
a La Spezia.