Location:
Texas diciamo.
Strade
polverose, cactus, coyote.
Cosa?
No,
non ci sono mai stato in Texas.
Perché
tu?… Va beh, non me ne frega un dattero, io sono il narratore e tu
il lettore, non fare domande e sii ricettivo.
Strade
polverose, cactus e coyote, dicevamo… a mio avviso rendono l’idea,
fatteli andar bene.
Come?
Ecco,
il vento canticchia un motivetto di Ennio Morricone, biascicando
tabacco come un vecchio stropicciato.
L’aria
è calda.
In
che senso quanto? Ah, calda quanto chiedi? Non saprei, ma
trenta-trentacinque gradi ci son tutti… di sicuro si pezza sotto
alle ascelle.
La
stagione? Addirittura la stagione vuoi sapere? Non la so la stagione,
non rompere il cazzo e ascolta.
(Dimmi
te, una volta i lettori stavano belli zitti, se si provavano a
commentare a sproposito li si buttava sul primo rogo, arrivederci e
tante grazie. Tempi duri adesso, per noi altri).
Comunque,
fatto sta che siamo in Mess… in Texas -volevo dire- l’aria è
calda e ci sono un sacco di cactus e coyote.
No,
la strada polverosa è una sola: prima ho usato il plurale perché
rendeva meglio.
Una
sola, lunghissima via che l’orizzonte sega a metà, lasciando il
dubbio del vuoto aldilà dello sguardo, che si dondola placido e
indifferente nell’atmosfera rovente. Addossato alla strada, un
villaggio.
A
che altezza della via dici? A destra o a sinistra?… Ma che quesiti
ti poni? Rilassati, vivitela più scialla ragazzo mio! Mica ti sto
dando delle indicazioni stradali… Un po’ di complicità per
piacere! Dov’è finita l’immaginazione, Dio Santo?
Vabbè
scusa, dai, non andartene. Vieni qua che devo introdurre il
personaggio principale.
Sei
comodo? Bene.
Dunque,
c’è un villaggio su sta strada coperta da un tappeto di cactus e
coyote, e in questo villaggio sta succedendo qualcosa.
Qualcosa
di molto pericoloso.
Tutta
la gente è fuori in strada, l’aria preoccupata, la testa incassata
tra le spalle.
Nulla
si muove, nulla fiata.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Sul
campanile bianco e svettante, un raggio del sole, quasi allo zenit,
si posa cocente, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Come
scusa? È un po’ contorto come periodo? Va bene, lo riscrivo.
Un
raggio del sole, quasi allo zenit, si posa cocente sul campanile
bianco e svettante, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Si,
hai ragione, è più chiaro.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Il
nostro protagonista è proprio lui: L’orologio.
Ebbene
si, sarò scontato, sarò banale, sarò quel che vuoi… comunque ho
ancora la facoltà di scegliere i personaggi dei miei racconti.
Come?
Ah, beh, sì, non aspettarti grandi dialoghi: con un orologio e dei
villani stupiti c’è poco da far dialogare.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Questo
è il massimo di discorso diretto che posso regalarti, mettiti il
cuore in pace.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Comunque,
ci sono questi abitanti del villaggio, questa folla che s’ammassa
ai lati della piazza principale -proprio quella del campanile, per
intenderci- e ha un aria molto preoccupata. No, non s’ammazza,
s’ammassa.
Però
ci sono due che si vogliono ammazzare.
Sono
i co-protagonisti, i personaggi più importanti dopo l’orologio.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Ma
neanche loro parlano, stanne certo.
Stanno
in mezzo alla piazza e si guardano da sotto i sombrero. Uno mastica
un sigaro, l’altro si morde un labbro.
Le
mani danzano una coreografia d’ansia e attesa sulla testa della
fondina, le dita fremono.
-
Tic-tac, tic-Tac.
A
mezzogiorno.
A
mezzogiorno in punto uno dei due sarà un co-protagonista morto.
Il
racconto è troppo piccolo per tutti e due.
-
Tic-tac, tic-Tac.
La
folla suda, respira affannosa, stringe i cappelli tra le mani o
attende di ammazzare un whiskey torbido, sulla soglia del saloon.
Il
sindaco, a fianco del vecchio ranger incartapecorito, s’asciuga la
fronte imperlata da cristalli d’ansia e timore.
Se
ti va, giusto per aggiungere un po’ di pepe alla storia -e anche
perché è un po’ che stai buono e non mi interrompi- possiamo fare
che uno dei pistoleri è suo figlio. Questo lo lascio decidere a te.
-
Tic-tac, tic-Tac.
La
lancetta è inesorabile: a scatti tondi s’avvicina al punto più
alto dell’orologio, proprio come il sole, che sale, lento, fin
sulla punta del cielo.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Manca
poco. Questione di secondi.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Tutti
gli occhi sono puntati ai due contendenti che cominciano ad accusare
la fatica: sentono i morsi della paura, una paura fredda che si
condensa nel caldo dell’aria in pensieri di morte.
Non
saprei dirti se è più una metafora o una sinestesia o chissà
che... bravo, comunque, bella domanda.
-
Tic-tac, tic-Tac.
Il
momento è quasi giunto.
Manca
un secondo: la lancetta delle ore, quella dei minuti e quella dei
secondi sono sovrapposte, ferme una tacca prima del segno “XII”,
aspettando di muoversi tutte assieme verso un rimbombo di campane e
spari.
Come
scusa? No, effettivamente non ho mai osservato un orologio analogico
nel momento esatto prima che scattasse l’ora, e si, effettivamente
dunque non so dirti con esattezza se è quella la posizione che
assumono le lancette in tale precisa frazione di tempo, ma siccome
siamo quasi al termine del racconto, ti prego di non assillarmi più
con la tua pignoleria: vaffanculo! E fidati una buona volta, no?…
E’ un artificio retorico, mica bisogna stare lì a fare i
precisini!
E
poi, comunque, nessuno dei presenti se n’è accorto: tutti guardano
i due co-protagonisti, che si scrutano fra loro.
Le
mani calano ad afferrare il calcio delle Colt.
Nello
stesso istante una donna apre la bocca per urlare, un bambino si
tappa le orecchie con le dita, un bicchiere -ignaro dellle leggi
sulla gravitazione universale di Newton- è fermo a mezz’aria tra
la mano d’un vecchio e il pavimento, il proprietario del saloon ha
gli occhi sgranati, il ranger è colto da un attacco di narcolessia,
il sindaco ha la faccia viola di chi sta per svenire, un coyote
singhiozza, un cactus muore, il resto della folla ha il fiato
sospeso.
Ed
ecco che accade qualcosa di straordinario.
-
…
L’orologio
s’è fermato.
Si
rifiuta di muoversi ancora di un piccolo passo.
Tutto
rimane immobile, incollato a quel movimento che non è avvenuto, ad
un istante che non è trascorso.
Impossibile,
dirai.
Me
ne frego. Questa storia la racconto io, e sono io a decidere che
succede.
La
prossima scrivila tu e falla finire come ti pare, se proprio vuoi, ma
adesso sottostai al significato delle lettere che ho scritto.
Per
quanto assurdo, surreale, insensato, tutto è fermo, cristallizzato
nell’eternità sintetica della pagina.
Un
universo imprigionato per sempre nella dimensione immaginaria che si
è instaurata nello spazio di dialogo che abbiamo creato io e te,
amato-odiato lettore.
Abbiamo
bloccato il tempo.
Ma,
purtroppo, anche io e te, volenti o nolenti, in quanto narratore e
lettore esistiamo solo in questo cosmo d’inchiostro e cellulosa: la
nostra vita è legata alla vita dei personaggi che lo abitano; al
deserto, ai cactus, ai coyote, alla folla, ai pistoleri e, in
definitiva a sua maestà l’orologio.
Se
egli smette di battere, il vuoto cala e sgretola la struttura del
racconto.
Rimane
solo l’innominabile, a cui nulla può seguire, se non lo stesso
nulla.
E
un povero scrittore in altro modo non può esprimerlo se non con la
solita vecchia parola di rito che lascia posto soltanto a un eterno
silenzio:
FINE
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dilla