mercoledì 6 marzo 2013

Tic-tac


Location: Texas diciamo.
Strade polverose, cactus, coyote.
Cosa?
No, non ci sono mai stato in Texas.
Perché tu?… Va beh, non me ne frega un dattero, io sono il narratore e tu il lettore, non fare domande e sii ricettivo.
Strade polverose, cactus e coyote, dicevamo… a mio avviso rendono l’idea, fatteli andar bene.
Come?
Sì, tipo Zorro. Meno Messico e Nuvole però, più Sergio Leone.
Ecco, il vento canticchia un motivetto di Ennio Morricone, biascicando tabacco come un vecchio stropicciato.
L’aria è calda.
In che senso quanto? Ah, calda quanto chiedi? Non saprei, ma trenta-trentacinque gradi ci son tutti… di sicuro si pezza sotto alle ascelle.
La stagione? Addirittura la stagione vuoi sapere? Non la so la stagione, non rompere il cazzo e ascolta.
(Dimmi te, una volta i lettori stavano belli zitti, se si provavano a commentare a sproposito li si buttava sul primo rogo, arrivederci e tante grazie. Tempi duri adesso, per noi altri).
Comunque, fatto sta che siamo in Mess… in Texas -volevo dire- l’aria è calda e ci sono un sacco di cactus e coyote.
No, la strada polverosa è una sola: prima ho usato il plurale perché rendeva meglio.
Una sola, lunghissima via che l’orizzonte sega a metà, lasciando il dubbio del vuoto aldilà dello sguardo, che si dondola placido e indifferente nell’atmosfera rovente. Addossato alla strada, un villaggio.
A che altezza della via dici? A destra o a sinistra?… Ma che quesiti ti poni? Rilassati, vivitela più scialla ragazzo mio! Mica ti sto dando delle indicazioni stradali… Un po’ di complicità per piacere! Dov’è finita l’immaginazione, Dio Santo?
Vabbè scusa, dai, non andartene. Vieni qua che devo introdurre il personaggio principale.
Sei comodo? Bene.
Dunque, c’è un villaggio su sta strada coperta da un tappeto di cactus e coyote, e in questo villaggio sta succedendo qualcosa.
Qualcosa di molto pericoloso.
Tutta la gente è fuori in strada, l’aria preoccupata, la testa incassata tra le spalle.
Nulla si muove, nulla fiata.
- Tic-tac, tic-Tac.
Sul campanile bianco e svettante, un raggio del sole, quasi allo zenit, si posa cocente, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Come scusa? È un po’ contorto come periodo? Va bene, lo riscrivo.
Un raggio del sole, quasi allo zenit, si posa cocente sul campanile bianco e svettante, balenando fugace sul metallo delle lancette.
Si, hai ragione, è più chiaro.
- Tic-tac, tic-Tac.
Il nostro protagonista è proprio lui: L’orologio.
Ebbene si, sarò scontato, sarò banale, sarò quel che vuoi… comunque ho ancora la facoltà di scegliere i personaggi dei miei racconti.
Come? Ah, beh, sì, non aspettarti grandi dialoghi: con un orologio e dei villani stupiti c’è poco da far dialogare.
- Tic-tac, tic-Tac.
Questo è il massimo di discorso diretto che posso regalarti, mettiti il cuore in pace.
- Tic-tac, tic-Tac.
Comunque, ci sono questi abitanti del villaggio, questa folla che s’ammassa ai lati della piazza principale -proprio quella del campanile, per intenderci- e ha un aria molto preoccupata. No, non s’ammazza, s’ammassa.
Però ci sono due che si vogliono ammazzare.
Sono i co-protagonisti, i personaggi più importanti dopo l’orologio.
- Tic-tac, tic-Tac.
Ma neanche loro parlano, stanne certo.
Stanno in mezzo alla piazza e si guardano da sotto i sombrero. Uno mastica un sigaro, l’altro si morde un labbro.
Le mani danzano una coreografia d’ansia e attesa sulla testa della fondina, le dita fremono.
- Tic-tac, tic-Tac.
A mezzogiorno.
A mezzogiorno in punto uno dei due sarà un co-protagonista morto.
Il racconto è troppo piccolo per tutti e due.
- Tic-tac, tic-Tac.
La folla suda, respira affannosa, stringe i cappelli tra le mani o attende di ammazzare un whiskey torbido, sulla soglia del saloon.
Il sindaco, a fianco del vecchio ranger incartapecorito, s’asciuga la fronte imperlata da cristalli d’ansia e timore.
Se ti va, giusto per aggiungere un po’ di pepe alla storia -e anche perché è un po’ che stai buono e non mi interrompi- possiamo fare che uno dei pistoleri è suo figlio. Questo lo lascio decidere a te.
- Tic-tac, tic-Tac.
La lancetta è inesorabile: a scatti tondi s’avvicina al punto più alto dell’orologio, proprio come il sole, che sale, lento, fin sulla punta del cielo.
- Tic-tac, tic-Tac.
Manca poco. Questione di secondi.
- Tic-tac, tic-Tac.
Tutti gli occhi sono puntati ai due contendenti che cominciano ad accusare la fatica: sentono i morsi della paura, una paura fredda che si condensa nel caldo dell’aria in pensieri di morte.
Non saprei dirti se è più una metafora o una sinestesia o chissà che... bravo, comunque, bella domanda.
- Tic-tac, tic-Tac.
Il momento è quasi giunto.
Manca un secondo: la lancetta delle ore, quella dei minuti e quella dei secondi sono sovrapposte, ferme una tacca prima del segno “XII”, aspettando di muoversi tutte assieme verso un rimbombo di campane e spari.
Come scusa? No, effettivamente non ho mai osservato un orologio analogico nel momento esatto prima che scattasse l’ora, e si, effettivamente dunque non so dirti con esattezza se è quella la posizione che assumono le lancette in tale precisa frazione di tempo, ma siccome siamo quasi al termine del racconto, ti prego di non assillarmi più con la tua pignoleria: vaffanculo! E fidati una buona volta, no?… E’ un artificio retorico, mica bisogna stare lì a fare i precisini!
E poi, comunque, nessuno dei presenti se n’è accorto: tutti guardano i due co-protagonisti, che si scrutano fra loro.
Le mani calano ad afferrare il calcio delle Colt.
Nello stesso istante una donna apre la bocca per urlare, un bambino si tappa le orecchie con le dita, un bicchiere -ignaro dellle leggi sulla gravitazione universale di Newton- è fermo a mezz’aria tra la mano d’un vecchio e il pavimento, il proprietario del saloon ha gli occhi sgranati, il ranger è colto da un attacco di narcolessia, il sindaco ha la faccia viola di chi sta per svenire, un coyote singhiozza, un cactus muore, il resto della folla ha il fiato sospeso.
Ed ecco che accade qualcosa di straordinario.
- …
L’orologio s’è fermato.
Si rifiuta di muoversi ancora di un piccolo passo.
Tutto rimane immobile, incollato a quel movimento che non è avvenuto, ad un istante che non è trascorso.
Impossibile, dirai.
Me ne frego. Questa storia la racconto io, e sono io a decidere che succede.
La prossima scrivila tu e falla finire come ti pare, se proprio vuoi, ma adesso sottostai al significato delle lettere che ho scritto.
Per quanto assurdo, surreale, insensato, tutto è fermo, cristallizzato nell’eternità sintetica della pagina.
Un universo imprigionato per sempre nella dimensione immaginaria che si è instaurata nello spazio di dialogo che abbiamo creato io e te, amato-odiato lettore.
Abbiamo bloccato il tempo.
Ma, purtroppo, anche io e te, volenti o nolenti, in quanto narratore e lettore esistiamo solo in questo cosmo d’inchiostro e cellulosa: la nostra vita è legata alla vita dei personaggi che lo abitano; al deserto, ai cactus, ai coyote, alla folla, ai pistoleri e, in definitiva a sua maestà l’orologio.
Se egli smette di battere, il vuoto cala e sgretola la struttura del racconto.
Rimane solo l’innominabile, a cui nulla può seguire, se non lo stesso nulla.
E un povero scrittore in altro modo non può esprimerlo se non con la solita vecchia parola di rito che lascia posto soltanto a un eterno silenzio:

FINE





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