martedì 23 aprile 2013

L'Investigatore Tossico

"Sono il terremoto!" - Truntruntruntrun trun!

Stavo scrivendo al pc, aggrovigliato alla tastiera, la schiena troppo flessa, le gambe troppo avanti, il mento sfuggente come lo sguardo di quelle donne con troppi figli sulla metro di Milano alle sei di sera.
Trattavasi di un resoconto di memorie di una sera precedente. Trattavasi - sì - si trattava.

Quand'ecco: tran!
E poi: "sono il terremoto!".
E poi - truntruntruntrun. E trun!

Mi giro sconsolato, la palpebra calante, il cuore già messo a tacere, la voce del rimprovero paterno in gola.
Mi giro e mi ritrovo a un palmo dai peli grigi del suo petto. Una gocciola di bava cala calda sul mio naso.
Alzo lo sguardo e lo vedo - vedolo - dietro alla falange dispiegata dei suoi denti quadrati, tra i fiati miasmatici dei suoi respiri irregolari: un quarantaseienne obeso afflitto da gigantismo fasciato in una tutina di lycra aderente viola e gialla, il cranio rasato attraversato dal semiarco di una cicatrice frastagliata.
Si chiama Daino. Paolo Daino. È il mio amico immaginario handicappato.

Quando ero bambino avevo paura di un sacco di cose. Tipo dei sotto scala, delle piscine e del rumore del frigorifero. Così ho pensato che se ero un supereroe, col cazzo che avevo paura. Col cazzo proprio: ero io che poi facevo paura, se erolo, un supereroe. 
E allora - quando non c'erano adulti - ero SuperSimone, ed ero davvero potente. SuperSimone era fatto tipo come me, però già grande di corpo, però con la mia faccia di bambino seienne con due occhioni neri così, però vestito con il costume di Superman, però con due "S" (beata innocenza!) sul petto e con dei guanti di legno con gli spunzoni. Come facesse SuperSimone a compiere le più elementari operazioni che prevedono l'utilizzo della motricità fine, indossando dei guanti di legno con gli spunzoni, è una domanda da stronzi a cui non intendo rispondere. Anche perché, a SuperSimone, di accendere fiammiferi, segnarsi il numero di telefono di qualcuno sull'agendina, indicare con precisione piccole parti meccaniche, fare il segno dell' "OK" o tastare un melone per valutarne la maturità, non gliene fotteva sega. SuperSimone tirava cazzotti ai fantasmi dei sottoscala e agli squali-balena delle piscine e alle verdure mutanti che crescevano nel frigo. E per queste cose qua, dei guanti di legno con gli spunzoni sono proprio il massimo. Fidatevi.
Fatto sta che SuperSimone non poteva mica combattere le paure di Simone da solo, senza aiuto e supporto.
Ogni eroe ha bisogno di una figura di sostegno, di un coprimario, di un gregario buffo e infaticabile che gli regga il gioco e riempia i buchi di sceneggiatura con spiritosi siparietti. Dylan Dog ha Groucho, Robin Hood ha Little John, Capitan America ha Bucky... e SuperSimone aveva l'Investigatore Tossico.

L'Investigatore Tossico era un figo e risolveva un sacco di casi. Tutti in città si chiedevano perché si chiamasse così, ma non è mica facile rispondere. Un po' è perché aveva la tosse. Ma quando raccontai a mia cugina - quella bella che la amavo - che L'investigatore Tossico si chiamava così per i costanti sforzi di petto, lei mi prese sonoramente in giro. Allora decisi che, sebbene avesse comunque una brutta forma di tosse cronica, si chiamava così perché respirava le pastiglie di droga. Ma anche questa esegesi sembrava riscuotere alcune preoccupazioni nella cugina. Allora finii per decidere che - nonostante fosse comunque gonfio di catarro e psicofarmaci, che ammettere di avere sbagliato e morire era la stessa cosa - si chiamava così perché portava davanti alla faccia una mascherina di quelle da chirurgo, per nascondere al mondo il suo alito mortifero.
L'Investigatore Tossico era molto molto muscoloso, anche se non si allenava mai e non aveva superpoteri, ed era vestito con una tuta di lycra viola e gialla sotto ad un impermeabile marroncino con le maniche strappate per mostrare gli strabilianti tatuaggi da galeotto. L'Investigatore Tossico aveva un nome d'arte americano, ma in realtà era nato a Chiavazza e si chiamava Paolo. Si, insomma, Paolo Daino.
Poi si sa come vanno le cose.
"I bambini muoiono e i loro cadaveri si chiamano adulti", c'era scritto sul diario di classe del mio amico Nicolò. E gli amici immaginari di un cadavere? E gli amici immaginari di un cadavere che ostentano una predisposizione alla psicosi - nessuno si metterebbe mai una tutina di lycra di quei colori sotto ad un impermeabile sbracciato, dovevate subodorarlo - e che hanno passato gli anni della loro giovinezza ad assumere psicofarmaci per via rinale? Dove vanno?
Beh, per un po' è stato in clinica, P. Daino. Gli hanno estirpato quel brutto vizio. Non gratis: quella brutta cicatrice è la polaroid dell'asfalto che si avvicina rapidamente alla testa. Ma poi è uscito, è ritornato alla vita. Ma i neuroni, ciao. Quelli lo avevano lasciato. 
Me lo sono trovato un giorno davanti alla porta di casa: si ricordava dove abitavo. Aveva riconosciuto il sottoscala. Io invece ho fatto fatica a riconoscerlo, sul subito. Era ingrassato, non portava più l'impermeabile e la mascherina, e i tatuaggi, blu e scoloriti, colavano oblunghi sui mastodontici bicipiti sgonfi. "I-investigatore tossico? Cosa cazzo...?". 
Il suo sorriso sdentato mi convinse del fatto che ero responsabile della sua vita. Una fantasia si può creare e strangolare come nulla. Una fantasia rappresenta per una persona distratta ciò che è una bella donna in calze a rete che ritorna a casa tardi la sera in un quartiere buio e deserto per un serial-killer. Ma persino un serial killer potrebbe farsi delle remore ad ammazzare il suo vecchio gatto pulcioso - quello stesso gatto che l'ha visto tornare a casa ogni sera con un nuovo sacco nero sulle spalle, quello a cui non è mai mancato un pezzetto fresco di fegato.

"Sono il terremoto!" - Truntruntruntrun trun!

Mi volto e lo vedo, lo sguardo accecato da cataratte d'idiozia, la lingua gonfia che trasuda insensatezza, come una bistecca al sangue posata su un letto a baldacchino.
Lo vedo e lui mi vede, e si accorge della lacrimuccia, e mi abbraccia con quelle braccia elefantiache. Mi stritola e mi stringe al petto unto, che sa di sudore salato e lettiera. 
Io accenno un tentativo di divincolamento, ma non serve a niente. Ci vorrebbero tre All Blacks per spostarlo.
"È perché è demente", mi dico. "È perché non riesce a capire che la sua vita è un'agonia di tosse ed emicrania", mi ridico. "Non si è mai visto, altrimenti, un amico immaginario sopravvivere al cadavere del suo bambino" mi convinco.
Ma quando nell'abisso degli sguardi altrui vedo sfiatare cetacei immensi, e una paura ancestrale mi blocca lo stomaco e gli occhi, sento le mie mani farsi di legno e punte, incapaci alla carezza, alla stretta, all' "OK". E mi ritrovo, sorpreso, a bisbigliare il nome dell'Investigatore Tossico.



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dilla