Bambino, ero. Bambino, ricordo. Occhi
grandi, gambe corte, ego smisurato, immaginazione irrequieta: sapete,
no? Tutti son stati bambini, chi più chi meno. E il periodo preciso
dirvi non so; poteva essere quell’era della vita in cui di anni ne
conti soltanto sulle dita delle mani, sicchè i piedi rimangono
liberi e ancora puoi correre in lungo e in largo, dove ti garba.
Lasciata alle spalle la casa nuova dove
pochi mesi addietro - a tradimento - la famiglia mia aveva traslocato,
mi facevo trascinare sotto il sole frastagliato d’inizio estate da un batuffolo di pelo nero, nuovo acquisto di quell’anno. Preso forse
per placare il mio capriccio costante, la mia necessità d’un
compagno di giochi, paziente e sommeso, pronto a darmela vinta, Birillo si rivelò una faccenda un po’ più complessa; che, sì, il
cucciolo di cane ignorava l’arte del sillabare, ma anch’esso
aveva pretesa di fanciullezza. E allora occhi grandi, gambe corte,
ego smisurato e immaginazione irrequieta valevano anche per quella
creaturina, che domare si rivelò impresa impossibile e fonte di
frustrazione perenne.
“No! Birillo, vieni qui! No pipì
lì, no! No! Birillo...”
Inutile. Un arco biondo già disegnava
l’aria tra pene e muretto grigio. Poco pudore, poco rispetto
dell’altrui proprietà. Bisognava educarlo.
Ma il caldo seccava le parole in gola,
lasciava poltiglia acida da deglutire o sputare, e gl’occhi incerti
sfruttavan le ciglia lunghe per difendersi dal bagliore accecante
dell’estate cittadina. Non era poi così grave, si poteva
soprassedere. Marachelle di bambino. Marachelle.
Capita talvolta di sentir leggero il
capo e sentir danzare intorno rumori come di ronzii - ne parlo da poco esperto, badate, che la mia pressione non è
mai scesa sotto ai limiti di guardia . Allora la vista si fa sfocata e piccoli
pallini di luce pulsano lungo l’iride, come api colorate o disturbi
catodici. Ammasso di elettrodomestici difettosi: sempre questa
l’impressione che mi ha dato il corpo.
Il caldo. Il caldo, sicuro - si dice un
adulto - ho mangiato poco, è logico. Non c’è problema
- suggerirebbe la mamma prudente, dolcemente vestita nel suo sorriso, versando
un bicchiere d’acqua fresca e stemperandovi, accurata, una bustina
di zucchero bruno. Ma fuori casa, un bambino, si che sa... pensa:
magari son drogato, magari quella bustina di figurine che ho raccolto
ieri da per terra... ma che mi viene in mente mai, mi starò
sbagliando; basta stringere forte gl’occhi, un po’ di
pressione... ecco così, abbassar la testa quel tanto...
Lampo di buio.
Danza di fate colorate, elettriche,
dionisiache baccanti dell’iride divorano l’immagine e ne
risputano a piacere contorni inventati, forme inusitate. Alice nel
paese delle meraviglie.
Un fischio come di flauto
dall’aggregato di mattoni arancioni di fronte alle casette a
schiera: Pan tra i muratori dirige i lavori del cantiere con festosa disciplina.
Il cane bianco della casa accanto, incomprensibilmente eretto su due
zampe, persiste nel ripetere con foga “cespuglio” nell’idioma
degl’anglosassoni - forse, veggente, voleva svelare al mondo o
quanto meno a me il nome del prossimo presidente degli States. Un re
alato, nell’etere azzurro sopra al mio capo, urla a squarcia gola
la prima lettera dell’alfabeto, come a ricordarmi ch’io sono la
zeta - nonostante ancora ignorassi il segreto dell’Ibis, sacro Toth
d’egitto, Ermete mio amor. Birillo, nel mentre, si cimenta in
una titanica, eterna lotta con la verde e grassa mantide bigotta.
Lupo d’Odino, fiuta la sorgente.
Lampo di luce.
Una rete di rame mi divideva dal giardino
che stava per esser mutato nell’ennesima villetta. Ronzio sommesso.
Alzo lo sguardo, mi spavento. Sgomento, verde sgomento.
Un animale mai visto, dalle fattezze di
piccolo elicottero, stava sospeso ad un palmo dal mio viso.
Corpo allungato dall’aspetto
tubiforme, ali lunghe e sottili, trasparenti, vibranti, testa formata
da due belle sfere brulicanti d’occhi, quasi un culo.
Rimango lì, atterrito. Birillo, come
di consueto, non dice nulla.
“S-sei velenoso?”, domando trepido.
Non risponde.
Continua a fare su e giù di pochi
centimetri, come fosse attaccato ad un elastico trasparente.
Mi fissa, mi mette in soggezione.
Poi si stufa - forse mi trova carente di
stimoli d’interesse - e si posa sulla cima della rete di rame, come
un Karate-Kid in equilibrio sul suo paletto. Fisso. Immobile.
Giro lo sguardo, prima a destra, poi a
sinistra: una lunghissima fila di esseri simili al primo, alteri e
superbi, è posata sulla sommità dei fili della grata.
Mi guardano? Non mi guardano? Migliaia
di occhietti fissi nel vuoto, laconici.
Mi sento giudicato. L’atmosfera è
afosa, kafkiana; sembra un’aula di tribunale.
Pare che da un momento all’altro una
di quelle strane divinità mi debba indicare con la zampetta sottile
e flessuosa, come a dare l’ordine all’intero pantheon di
scatenare la sua ira funesta su di me.
Retrocedo di un passo.
Lancio uno sguardo al soldato Birillo per saggiarne lo stato di forma: occhio vispo, gamba agile e pronta;
non pare aver riportato gravi danni durante l’incontro con il
mostro-mantide, che giace schiacciato al suolo in una poltiglia
verdastra e si lascia andare agl’ultimi scatti nervosi di zampa,
come son soliti gl’insetti prima di morire.
Un cenno del capo sancisce un tacito
accordo tra bambino-uomo e bambino-cane.
Un’ultima occhiata timida
agl’immortali re del tempio di rame, una preghiera sommessa
affinché le statue insettiformi non mutino in mostri viventi
carnivori e... via!
Guizzar di muscoli giovani; i due
inesperti ma rapidi eroi imboccano di slancio il sentiero di
piastrelle rosa che li riporterà al castello tra le braccia
accoglienti di re e consorte.
http://fbrct.blogspirit.com/archive/2005/12/11/nella-mente-di-birillo.html
RispondiEliminae il pensiero vola al 2005, quando birillo era ancora semi giovane e correva sentendo "cuscino" e "gattino"
Vale