giovedì 3 ottobre 2013

L'Ondata Spressionista non si arresta

Continua la crociata Spressionista contro l'estetica del benfatto.
Nuovi adepti si uniscono alla causa: segnalo in particolare alcuni lavori acerbi ma intriganti del giovane regista chiavazzese Tommaso Esposito (Nuovo Cinema Spressionista Vol.I ;Anche a Wellington, Spressionismo ;Shadows And Lights). In questi film, la rigidità un po' scolastica con cui viene seguito il dogma del trentaquattresimo secondo stride con la grande libertà espressiva del regista, che trova una sua cifra estetica, un suo alfabeto personale soprattutto nell'uso creativo del sonoro (rigorosamente diegetico, come ovvio) e nella scelta di incentrare lo sguardo su frammenti di azioni in divenire. Non un gesto concluso, quindi, non una storia obliqua ma in sé completa, con un inizio e un termine: nell'Esposito la realtà è colta in medias res e scomposta in segmenti modulari che sembrano suggerire una ripetizione continua, in loop, del filmato. Brevi universi inceppati, atomi di un montaggio perduto, che sembrano poter acquisire un senso pieno solo all'interno di una galassia - indefinitamente ampliabile e mai davvero conclusa - di film Spressionisti in relazione ritmica fra loro.

Vorrei continuare la rassegna odierna proponendovi due mie opere giovanili.

Si tratta di una coppia di film, simili nella struttura ma concettualmente molto diversi tra loro. Ma non si può criticare un film senza prima, prima vederlo... perciò, ecco il materiale:




LA PIZZA


Regia: Simone Perazzone
Con: Elena Pilotto
Durata: 17"




L'ACQUA

Regia: Simone Perazzone
Con: Elena Pilotto
Durata: 24"




 Nel primo filmato lo sguardo si apre su di un piatto di pizza. Finito. Briciole bruciacchiate, come cenere dimentica di ciò che fu, visione entropica di ciò che sarà. Una premonizione? Un flash forward? Andiamo avanti. L'occhio scorre sul dorso della tovaglia, sorvola delle confezioni di grissini legate da un triste fiocchetto, poste lunghe, orizzontalmente, come una frontiera, una linea che separa regioni di spazio ostili. Ecco un altro piatto di pizza. Finito. Le croste languono, abbandonate, dimentiche, sulla superficie farinosa di ceramica, come ad indicare la sazietà e forse anche la noia, la nausea. Ormai palese il richiamo a Sartre e all'esistenzialismo francese, ecco un'inquadratura che è un chiaro omaggio al maestro d'oltralpe Jean Luc Godard. I gomiti puntati sul tavolo, la maglia nera, la fronte spaziosa pigramente abbandonata contro il pugno che sembra reggere una sigaretta virtuale, i chiari occhi malinconici: la comparsa di Elena Pilotto è come un'epifania che richiama in vita la splendida Anna Karina della nota scena del café di Vivre Sa Vie. Non perché Elena Pilotto sia splendida, sia chiaro. Ma più per quell'aria insieme sofferente e profondamente consapevole. Consapevole e responsabile.  Il suo volto muta rapidamente, prima sembra aprirsi in un dolce sorriso, quasi un segno di sintonia e intesa con quello sguardo che sta aldilà della frontiera di grissini. Poi si abbassa, rassegnato, disilluso, forse colpevole, forse stizzito. Lo sguardo cinematografico stesso, come imbarazzato, si allontana da quel volto pallido e sovraesposto, come circonfuso dalla luce che proviene dall'ampia vetrata sullo sfondo. Ed ecco che - proprio mentre comincia a farsi più insistente il vociare della gente nel locale - appare una parete riflettente, che ci rimanda la silhouette della Anna Karina di Lorazzo che si staglia fra i riflessi degli avventori, come a ricordare che i due seduti al tavolo non sono soli. Non possono mai essere soli. Sempre le nostre scelte devono tener conto del reticolo di altri sguardi che compongono l'universo sociale, e che vengono incorporati, pian piano, come buonsenso, nel nostro stesso sguardo. Il peso di questa consapevolezza deve aver schiacciato il lampo di sintonia che s'era acceso negli occhi dell'attrice, che avevano trovato - immaginiamo - un corrispettivo in quelli incarnati dall'obbiettivo cinematografico. Quale storia si nasconde dietro questo non detto? Quale azione non compiuta si è spenta nella cenere della pizza terminata? Un amore non confessato? Una coppia che non ha il coraggio di lasciarsi? La volontà inespressa di ordinare un fritto misto di pesce da dividere in due? Un rutto in sincrono? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai.



Il secondo filmato, pur simile strutturalmente, è tragicamente diverso per messaggio e atmosfera. Un bicchiere si manifesta davanti ai nostri occhi. Un bicchiere di vetro, lungo, con qualche gocciolina riflettente che si arrampica sulle sue pareti di ghiaccio. Finito. C'è stata, c'era indubbiamente dell'acqua. Ma non è più lì. Ecco allora l'occhio digitale che si allontana retrocedendo, e appaiono un accendino, una tazzina di caffé - pure, finita - , dello zucchero, il tavolo di un bar all'aperto. Un dehor estivo. Un'atmosfera rilassata, idilliaca. Le esigenze fisiologiche e i vizi sono stati soddisfatti, sarebbe il momento adatto per uno slancio di alta teoresi, di ispirazione mistica o artistica. L'occhio digitale infatti si incammina su per il braccio della solita Elena Pilotto, come per frugare nei suoi occhi e ripescare quel cenno d'intesa. La maglia nera, gli anelli vistosi, le mano attenta che sorregge il mento. La tensione qui è altissima: il momento è propizio, ideale. Potrebbe avverarsi come una ierofania l'avvenimento preannunciato e smentito nel film precedente... e invece nulla: due lenti a specchio coprono gli occhi della protagonista, rimandando questa volta la silhoutte del cellulare nokia-fetecchia che la riprende e lo sfondo di avventori del bar. A rimarcare il fatto, ella scuote lentamente ma inequivocabilmente il capo. Allo sguardo digitale non resta che tornare a concentrarsi sulla natura inorganica del bicchiere, dove forse aveva spento un po' dell'arsura provocata dal deserto della socialità. Forse il ricordo mitico di quella fonte di freschezza, forse il vortice vertiginoso della contemplazione estetica lo spingono infine a tuffarsi nell'orbita vuota del recipiente, ormai secco e inutile.

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dilla